L’italiano con la “I” maiuscola: oggi Alberto Sordi avrebbe 100 anni

‘Albertone’ nasceva il 15 giugno del 1920, oggi avrebbe 100 anni. ll 24 febbraio del 2003 morì all’età di 83 anni. Fu uno dei più grandi attori del cinema italiano.

Alberto Sordi nasceva il 15 giugno del 1920, oggi avrebbe compiuto 100 anni. ll 24 febbraio del 2003 morì all’età di 83 anni. Fu uno dei più grandi attori del cinema italiano, ma non era solo questo: era l’italiano con la I maiuscola, nei suoi pregi e difetti.

La sua non era mai una maschera,era il volto di tutti noi. Ci ha fatto ridere e piangere, riflettere e spensierare. Le sue battute sono ormai nel lessico corrente di ognuno di noi. Con più di 180 film, Albertone è riuscito a descrivere al meglio la figura dell’italiano medio.

Quando se ne è nadato, nel cuore di tutti gli italiani non era morto un attore, ma “uno di casa”!

Roma, quartiere Trastevere

A Via San Cosimato 7 nel rione Trastevere, forse non c’è più nessuno che possa dire di averlo conosciuto: dal giorno in cui qui era nato Albertone sono passati 100 anni. Sul muro una targa ricorda questo romano illustre che nella memoria collettiva incarna l’italiano esemplare con tutti i suoi grandi difetti e le sue piccole virtù.

Figlio di un maestro strumentista e di una maestra, Alberto Sordi passò l’infanzia a Valmontone. Tornato a Roma nel 1937, studiò canto lirico fino a far parte del coro della Sistina: era un ragazzino con la voce da soprano, ma poi si scoprì essere un basso naturale.

Prestò la voce ad Oliver Hardy come doppiatore e vinse un concorso della Metro Goldwin Mayer nel 1937. La musica gli fu sempre vicina, dal teatro di rivista, famoso il suor”Polvere di stelle”, durante la guerra militò nella banda del reggimento di fanteria “Torino”.

I primi successi arrivano subito dopo la guerra, alla radio, con una gamma di personaggi diventati immortali: Il compagnuccio della parrocchietta, Mario Pio, il Conte Claro.

Quella che poteva essere la sua maledizione, l’accento romanesco che non piaceva a ‘quelli del nord’, fu invece la chiave della sua popolarità. Su di lui scommise da produttore Vittorio De Sica per lo sfortunato “Mamma mia, che impressione”, ma soprattutto Federico Fellini che lo volle protagonista del suo esordio, “Lo sceicco bianco” (1952).

Da “Un giorno in pretura”, “Piccola posta” e soprattutto “Un americano a Roma (1954) col bulletto Nando Moriconi, la sua carriera divenne frenetica al ritmo di anche 10 pellicole all’anno per un record di 152 apparizioni fino alla morte, il 24 febbraio del 2003.

Dalla parodia alla commedia

Nei suoi inizi Alberto Sordi dà vita a personaggi per lo più comici e parodistici, ma con gli anni ’60 si prepara diventare uno dei quattro “colonnelli” della commedia all’italiana.

La svolta coincide però con un’interpretazione drammatica in uno dei film più importanti nella storia del cinema italiano: “La grande guerra” di Mario Monicelli, premiato alla Mostra di Venezia col Leone d’oro e criticato aspramente da schiere di moralisti e conservatori.

L’anno dopo avrebbe bissato con un altro film sul doppio crinale della commedia e della tragedia, “Tutti a casa” di Luigi Comencini: ancora una volta con un debole capace di riscatto durante un momento cruciale della Storia, l’8 settembre 1943 e la successiva scelta della Resistenza.

Nel 1961 Sordi prosegue nella sua rivisitazione dei tratti italiani con “Una vita difficile” di Dino Risi. Sordi partecipa spesso all’elaborazione dei copione (circa 140 oltre alle sue regie) e trova nel veneto Rodolfo Sonego il suo complice prediletto.

E poi altri successi: “Boom”, “I mostri”, “Gastone”, “Il medico della mutua” “Nell’anno del Signore”, “La più bella serata della mia vita”, “Lo scopone scientifico”, “Il marchese del Grillo”.

Per tutta la vita, con sua soddisfazione, ad Albertone è rimasta appiccicata l’etichetta dell'”italiano medio”, furbo, piacione, vigliacco o debole, a suo modo ingenuo e in fondo di sani principi.

Ma Alberto Sordi in verità sapeva fare tutto, teneva alla sua vita privata, unico amore confessato quello in gioventù per Andreina Pagnani, si fidava solo della sua famiglia (un fratello manager, due sorelle ancelle e custodi della sua bella villa sulla via Appia), mostrava generosità con donazioni assistenziali, religiosità non ostentata.

A settembre si aprirà la mostra a lui dedicata nella sua casa-fondazione. Alla sua morte il  corpo venne imbalsamato e così lo salutarono, in un’interminabile processione di due giorni al Campidoglio, tutti i suoi concittadini.

Ai funerali solenni in San Giovanni in Laterano ci fu una folla di 250.000 persone ad accompagnarlo per l’ultima volta.

I suoi aforismi

La nostra realtà è tragica solo per un quarto: il resto è comico. Si può ridere su quasi tutto.
Non mi sposo perché non mi piace avere della gente estranea in casa.
La mia comicità non è mai stata astratta, gratuita. L’ho sempre ricalcata sulla realtà del momento.
Nei miei film io mi limito a riflettere le inquietudini di tutti noi, il pessimismo dilagante.
Se il mondo fosse come lo presenta un certo cinema d’oggi, sarebbe un incredibile bordello.
Se Fellini mi dicesse: “Albe’, ho una parte per te nel mio prossimo film…” Eh, allora come faccio a dire di no? Con Federico ho fatto “Lo sceicco bianco”, “I vitelloni”, e se so’ quello che sono, oggi, lo devo anche a lui, no?
Sa perché dicono che sono avaro? Perché i soldi non li sbatto in faccia alla gente, come fanno certi miei colleghi.
Sono un credente, un cattolico osservante. La domenica vado a messa. Mi faccio la comunione. Be’, diciamo la verità, è deprimente constatare che la mia religiosità stupisce, non le pare?
Dubito fortemente di poter essere matrimoniabile.
Alla mia età ho fatto il callo alla solitudine. Una solitudine, però, molto relativa, perché il lavoro riesce a riempire completamente la mia esistenza.

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