Siamo lavoratori instancabili e stakanovisti oppure amiamo bighellonare davanti alla macchinetta del caffè non solo nei momenti di pausa?
Il momento “sacro” della pausa caffè per un lavoratore italiano potrebbe non essere considerato più come una necessità fisiologica improrogabile. Non ci troviamo più nella situazione in cui un’azienda potrebbe essere costretta a non porre alcun veto.
Cosa sta accadendo e cosa dice la legislazione vigente in merito? Cosa dicono soprattutto i casi precedenti della nostra giurisprudenza?
Nella maggior parte degli uffici italiani, in particolare nelle sedi delle pubbliche amministrazioni, la presenza delle macchinette da caffè e successivamente anche dei distributori di alimenti, è sempre stata nel corso degli anni una realtà consolidata.
Nel tempo tutto questo è diventato talmente ovvio e scontato che si configura quasi come un aspetto integrante della vita lavorativa.
Molte aziende installano macchinette da caffè nei propri uffici al fine di evitare pericolose ed eccessive “fughe” al di fuori dell’ufficio. Ma nulla possono di fronte al cosiddetto “assenteismo da macchinetta”.
Ma a quante pause caffè ha diritto, ad esempio, un impiegato? Potremmo dire un numero limitato da non compromettere la propria attività, è certo.
Naturale parliamo di dipendenti, non certo di proprietari di aziende o di imprenditori, o di manager, che possono gestire magari in autonomia il proprio tempo libero.
La pausa pranzo al di fuori della sede dell’azienda, l’irrinunciabile convivio al bar con i colleghi, rappresentano di certo degli “step” della propria vita lavorativa che rientrano nei pieni diritti di un lavoratore regolarmente assunto.
Nel momento dello “stop” dell’orario di lavoro, un impiegato può agire come meglio crede. E nel caso in cui il suo ufficio non disponga di una mensa, è costretto gioco forza a recarsi all’esterno per consumare il suo pasto. Il luogo di destinazione diventa un bar o una tavola calda.
Ma cosa succederebbe se un impiegato, di concerto con i colleghi, uscisse dall’ufficio per una brevissima pausa caffè e si infortunasse seriamente, chiedendo poi un lauto risarcimento? Cosa succederebbe se facesse causa alla sua azienda per infortunio sul luogo di lavoro?
Immaginiamo che il capo ci abbia autorizzato a uscire per una breve sosta al bar, e fin qui tutto bene. Ma attenzione ci troviamo in orario lavorativo, e pur avendo il permesso per prenderci un caffè, di fatto non stiamo né lavorando, né svolgendo una mansione indispensabile per la nostra azienda. Cosa accade?
Entriamo nel cuore della notizia e prendiamo come riferimento una sentenza del 2010.
Niente indennizzo per malattia nè riconoscimento di invalidità per i lavoratori ai quali capita un infortunio mentre consumano il “rito” della pausa caffè in orario di servizio, anche se, come è accaduto hanno il permesso del capo per andare al bar all’esterno dell’ufficio sguarnito di un punto ristoro.
A stabilirlo è la Cassazione che, alcuni anni fa, ha accolto il ricorso dell’Inail contro indennizzo e invalidità del 10% in favore di una impiegata della Procura di Firenze che si era rotta il polso cadendo per strada mentre, autorizzata, era uscita per un caffè.
Per i giudici la “tanto desiderata tazzina” non rappresenta certo una esigenza impellente e legata al lavoro ma una libera scelta.
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Questo parte del testo della sentenza. La Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato dall’Inail e, decidendo nel merito, ha respinto le richieste della donna. Il tribunale e la Corte d’appello di Firenze, invece, avevano accolto il ricorso della lavoratrice, osservando che la pausa “era stata autorizzata dal datore di lavoro” e che “era assente il servizio bar all’interno dell’ufficio”. L’Inail, dunque, si era rivolto alla Cassazione, sostenendo che “non possono essere ravvisati “nell’esigenza, pur apprezzabile, di prendere un caffè i caratteri del “necessario bisogno fisiologico che avrebbero consentito di mantenere la stretta connessione con l’attività lavorativa”.
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