Un dossier chiamato ‘The Scaling Fences: Voices of Irregular African Migrants to Europes’, mette in evidenza i veri motivi per cui gli immigrati vengono in Italia.
Una notizia che potrebbe scardinare anche le convinzioni più integraliste riguardo ai migranti. Un dossier che non piacerà molto alla ministra Bellanova, fermo restando il suo buon lavoro sulla sanatoria.
«I migranti non sono profughi». Non lo dice un giornale di destra qualunque, ma l’Onu. C’è un dossier dal titolo The Scaling Fences: Voices of Irregular African Migrants to Europes, che mette nero su bianco il vero motivo per cui gli immigrati vengono in Europa.
La ricerca, realizzata dall’Undp (United Nations Development Programme), ha intervistato più di tremila immigrati provenienti da 43 diversi paesi africani e stabiliti poi in tredici Paesi europei.
La realtà descritta dalle Nazioni Unite è molto diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad oggi. I migranti, arrivati quasi tutti con i barconi, per il 49 per cento avevano un lavoro, in molti casi uno stipendio maggiore e un livello di istruzione più alto della media dei connazionali.
Molti degli intervistati hanno risposto che guadagnavano a sufficienza per vivere dignitosamente anche in Africa. E il 12 per cento ha assicurato che era in grado anche di mettere da parte risparmi.
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Situazione ben diversa da quella che si vuole raccontare agli italiani. Quindi, perchè rischiano la vita in mare per venire in Italia?
Il vero motivo della loro fuga è dovuto per il 60 per cento alla volontà di trovare un altro lavoro e mandare i soldi a casa. Per il 18 alla “famiglia o amici”. E infine per l’8 per cento all’istruzione.
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Ma nessuno accenna a situazioni di pericolo in patria o di essere stato costretto. Il viaggio verso le coste italiane è quindi una sorte di “investimento”. In genere per arrivare in Europa pagano circa 2700 dollari che sono finanziati spesso dai parenti.
Poi, una volta arrivati a destinazione, cercano un lavoro. Per poi spedire i soldi a chi ha investito nel viaggio. «Investitori» che come scrive l’Onu si attendono degli utili: un «return on investment».
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